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Dante, selezione dalla Commedia a cura di Carlo Colognese – Parte Ottava

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Released Monday, 28th June 2021
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Brunetto Latini, conosciuto pochissimo dalla maggior parte delle persone, è invece una delle figure più importanti della storia più antica della letteratura italiana.

Lo stesso Dante Alighieri, nel quindicesimo canto dell’ Inferno, lo riconosce come proprio maestro, ribadendo il concetto fondamentale sancito dalla storia la quale consacra Brunetto Latini come padre del cosiddetto “dolce stilnovo” e maestro dei più grandi esponenti della corrente letteraria, appunto, degli “stilnovisti”.

Figura centrale quindi quella di Brunetto Latini il quale componendo la propria opera “Il Tesoro”, realizza quella che viene riconosciuta da critici autorevolissimi come la prima enciclopedia in “lingua volgare”.

Latini può essere quindi definito come colui che sia in prima persona con la propria opera sia con l’insegnamento a Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e lo stesso Dante Alighieri pone le prime salde fondamenta della lingua italiana.

È infatti il lavoro di questi letterati e poeti, unito alle precedenti esperienze che fanno capo alla poesia siciliana (Francesco Casella e Cecco Angiolieri) che danno alla lingua di quell’epoca il colpo d’ala necessario per farla assurgere allo stadio di compiuta bellezza che tutto il mondo a tutt’oggi riconosce.

Potremmo quindi, ignorando la permanenza in terra di Francia di Brunetto Latini, ricostruire il percorso di sedimentazione della nostra lingua come un circuito magico che partendo dal latino medievale si trasferisce in Provenza dando nerbo al linguaggio dei trovieri che componevano i loro poemi con le leggende della “Canzone di Orlando” la quale giunse in Sicilia con la dominazione franca dando così alimento alla poesia dei “siciliani” i quali a loro volta a motivo di contatto personale o d’arte trasmisero quel linguaggio a Firenze dove Brunetto Latini diede metodo alla lingua e Dante la mise in opera col successo “eterno” che tutti conosciamo.

CANTO QUINDICESIMO

Ora cen porta l’un de’ duri margini;e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,sì che dal foco salva l’acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,per difender lor ville e lor castelli,anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,tutto che né sì alti né sì grossi,qual che si fosse, lo maestro félli.

Già eravam da la selva rimossitanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,perch’io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d’anime una schierache venian lungo l’argine, e ciascunaci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;e sì ver’ noi aguzzavan le cigliacome ’l vecchio sartor fa ne la cruna.

Così adocchiato da cotal famiglia,fui conosciuto da un, che mi preseper lo lembo e gridò: "Qual maraviglia!".

E io, quando ’l suo braccio a me distese,ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,sì che ’l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;e chinando la mano a la sua faccia,rispuosi: "Siete voi qui, ser Brunetto?".

E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiacciase Brunetto Latino un poco tecoritorna ’n dietro e lascia andar la traccia".

I’ dissi lui: "Quanto posso, ven preco;e se volete che con voi m’asseggia,faròl, se piace a costui che vo seco".

"O figliuol", disse, "qual di questa greggias’arresta punto, giace poi cent’annisanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;e poi rigiugnerò la mia masnada,che va piangendo i suoi etterni danni".

Io non osava scender de la stradaper andar par di lui; ma ’l capo chinotenea com’uom che reverente vada.

El cominciò: "Qual fortuna o destinoanzi l’ultimo dì qua giù ti mena?e chi è questi che mostra ’l cammino?".

"Là sù di sopra, in la vita serena",rispuos’io lui, "mi smarri’ in una valle,avanti che l’età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:questi m’apparve, tornand’ïo in quella,e reducemi a ca per questo calle".

Ed elli a me: "Se tu segui tua stella,non puoi fallire a glorïoso porto,se ben m’accorsi ne la vita bella;

e s’io non fossi sì per tempo morto,veggendo il cielo a te così benigno,dato t’avrei a l’opera conforto.

Ma quello ingrato popolo malignoche discese di Fiesole ab antico,e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;ed è ragion, ché tra li lazzi sorbisi disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;gent’è avara, invidiosa e superba:dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,che l’una parte e l’altra avranno famedi te; ma lungi fia dal becco l’erba.

Faccian le bestie fiesolane stramedi lor medesme, e non tocchin la pianta,s’alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santadi que’ Roman che vi rimaser quandofu fatto il nido di malizia tanta".

"Se fosse tutto pieno il mio dimando",rispuos’io lui, "voi non sareste ancorade l’umana natura posto in bando;

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,la cara e buona imagine paternadi voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’etterna:e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivoconvien che ne la mia lingua si scerna.

Ciò che narrate di mio corso scrivo,e serbolo a chiosar con altro testoa donna che saprà, s’a lei arrivo.

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,pur che mia coscïenza non mi garra,ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:però giri Fortuna la sua rotacome le piace, e ’l villan la sua marra".

Lo mio maestro allora in su la gotadestra si volse in dietro e riguardommi;poi disse: "Bene ascolta chi la nota".

Né per tanto di men parlando vommicon ser Brunetto, e dimando chi sonoli suoi compagni più noti e più sommi.

Ed elli a me: "Saper d’alcuno è buono;de li altri fia laudabile tacerci,ché ’l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur chercie litterati grandi e di gran fama,d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,s’avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de’ servifu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,dove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma ’l venire e ’l sermonepiù lungo esser non può, però ch’i’ veggiolà surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.Sieti raccomandato il mio Tesoro,nel qual io vivo ancora, e più non cheggio".

Poi si rivolse, e parve di coloroche corrono a Verona il drappo verdeper la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

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